Prima di discutere di marchingegni elettorali, allargamento della partecipazione, diritto allo studio e alla conoscenza, forse dovremmo riflettere su come le nuove tecnologie stanno modificando le nostre strutture di pensiero.
La comunicazione digitale chiama in causa prevalentemente l’intelligenza visiva, che lavora per immagini, coglie la capacità di insieme e si muove per associazioni, relegando al ruolo di Cenerentola l’intelligenza sequenziale-imprescindibile per la comprensione di un testo- che invece permette di individuare delle gerarchie.
Mentre l’intelligenza visiva si annette nuove lande del nostro emisfero cerebrale ogni volta che ci attacchiamo ad uno dei nostri dispositivi, la nostra capacità di attenzione e di comprensione della complessità si acquatta in un anfratto sempre più angusto. Mentre l’intelligenza artificiale cerca di imparare le nostre capacità di ragionamento più fini e astratte, il nostro cervello cede al fascino del sistema binario dei primi computer: zero-uno, mi piace-non mi piace, vero-falso. Facciamo del nostro meglio per assomigliare a come ci misurano gli algoritmi (un insieme di clic e di preferenze), essendo i primi ad autocastrarci, bandendo sfumature e articolazioni di pensiero e dialoghi sfiancanti e lunghissimi di pannelliana memoria in quanto poco produttivi di like e di popolarità.
Ed ecco che queste misurazioni -mere inferenze statistiche- si elevano nella vulgata al rango di oggettività e si diffondono come la moneta cattiva nella scuola e nelle aziende, cambiando e non in meglio il modo di studiare e lavorare (se sono valutato con un test a crocette in base al numero di parole che riesco a tradurre dal latino, mi concentrerò su questo sforzo mnemonico trascurando quella sintassi che mi servirebbe come l’aria se dovessi confrontarmi con una versione).
Possibile che quasi tutti gli intellettuali e gli artisti abbiano mostrato una melliflua acquiescenza verso lo strumento e non ci abbiano messo in guardia?
È possibile, se si pensa che per alcuni aspetti internet ha realizzato il sogno del ‘77 di collettivizzare le proprietà intellettuali: oggi abbiamo un accesso pressoché gratuito alla musica senza bisogno di processare De Gregori.
In rete si è fatta strage di regole di mercato, ma le persone ne hanno percepito solo i vantaggi da consumatore. Certo, in questa giungla che è il mercato digitale succede che gli affitti aumentino anche per la presenza di Airbnb et similia, e i margini di alcune imprese si riducano portando gli stipendi degli stessi consumatori su discese sempre più ripide, ma nel frattempo l’atrofizzarsi della nostra intelligenza sequenziale ha ridotto le nostre capacità di collegamento.
Ci siamo pertanto rassegnati a vedere la rete solo come una grande autostrada di opportunità che non abbisogna di regole, così come avevamo commesso l’errore di pensare che la globalizzazione si sarebbe autogovernata.
Arrivati al punto in cui siamo, lo Stato -a costo di essere impopolare, che’ Amazon, ad esempio, è considerato un monopolista benemeritò dai consumatori, a differenza del trinariciuto Rockfeller nel secolo scorso- dovrebbe regolamentare il mercato digitale alla stessa maniera in cui detta le regole per il buon funzionamento degli altri mercati, il tema della partecipazione si dovrebbe legare alle regole editoriali della rete (responsabilità, riconoscibilità, trasparenza degli algoritmi, ecc.)e al diritto all’informazione, l’intervento pubblico dovrebbe “tutelare” l’intelligenza sequenziale, nella scuola, nell’informazione pubblica, ad esempio con corrispettivi a giornali e radio private quando svolgono un servizio pubblico. Lo Stato “cinemaro’ faceva storcere il naso e il pizzetto all’immenso Ernesto Rossi, ma qui più che finanziamenti e sovvenzioni forse siamo nella fattispecie del garantire la sopravvivenza di una filiera e di infrastrutture intellettuali per non cadere in una pericolosa dipendenza anche cognitiva (un po’ la dottrina che Biden e Sullivan stanno applicando in alcuni settori strategici.) Coraggio, dunque, proviamo a governare il progresso, che il caos creativo non è sempre foriero di schumpeteriani avanzamenti.
Filippo Vignali