Da più parti, nelle ultime settimane, si è giustamente ricordato un evento che ha cambiato decisamente la storia sociopolitica del nostro paese: il referendum del 12 e 13 maggio del 1974 sul divorzio. Giusto ricordarlo, certo. Ma come ricordarlo? Andiamo però con ordine, anzi facciamo ordine.
La legge 898, datata 1 dicembre, 1970, che ebbe come primi firmatari il socialista nenniano nonché ex comunista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini, aveva ufficialmente introdotto il divorzio in Italia: è la chiusura di un cerchio, che parte dai primi tentativi (nostrani, comunque tardivi rispetto ad altri stati europei) all’alba dell’Unità da parte di Salvatore Morelli, passa per l’azione legislativa del guardasigilli Villa prima e del suo collega Zanardelli poi, fino ad arrivare a Giolitti che barattò ogni discussione in merito al divorzio in cambio del ritorno alla vita politica dei cattolici (patto Gentiloni). Quindi, abbondantemente oltre il Novecento, anche solo discutere in ambito parlamentare di divorzio è cosa ardua.
Arriva la dittatura fascista, gli scellerati patti Lateranensi e il cerchio si chiude. Tristemente. Almeno fin dopo la guerra. Il buon Togliatti, memore della lezione di Turati (“Il divorzio è roba da borghesi”) definisce “inattuale e anzi dannoso il divorzio in relazione alle esigenze della società italiana”, fin quando il fuoriuscito Loris Fortuna nel 1965 presenta una proposta che viene prontamente abbracciata dai liberali di Baslini e, vivaddio, la cosa almeno rientra nell’alveo della discussione parlamentare. Dopo 5 anni, Pertini, in qualità di Presidente della Camera, annuncia l’entrata in vigore della Legge 898, grazie ai voti di una maggioranza laica composta da PSI, PSIUP, PCI, PSDI, PRI, PLI (quella che nei sogni e visioni meravigliose di “qualcuno” avrebbe potuto e dovuto gettare le basi dell’Unione Laica delle Sinistre) e il voto contrario di DC, MSI, monarchici e VSP. Per il compianto Aldo Moro è una sconfitta, ma recuperabile: secondo lui, non era necessario uno scontro campale in parlamento. Il divorzio sarebbe stato sconfitto o dall’intervento – tagliola della Corte Costituzionale o, in ultima battuta, dall’indizione di un referendum abrogativo previsto dalla Costituzione.
La Corte Costituzionale si pronuncia a favore della legge non ravvedendo incostituzionalità, quindi ci si imbarca nella campagna referendaria, che DC e cattolici, depositari del monopolio mediatico e sociale dell’Italietta del tempo, vedono come già vinta. A crederlo è soprattutto Fanfani (in rotta con Moro) che investe dell’oneroso compito di deus ex machina della campagna antidivorzista l’on. Gabrio Lombardi (che definì il divorzio “una variante dell’harem diluita negli anni”). In poco tempo si mobilitano le chiese, le parrocchie, preti di ogni buco sperduto d’Italia, si raccolgono più del doppio delle firme richieste e il referendum si fa. Anzi si farà, perché nel 72 cade il governo e la votazione è rimandata al 1974. Il Golem bianco è difficile da contrastare nelle tv, sulla carta stampata, il web era ancora lontano…il fronte antidivorzista si riversa nelle piazze, con la gente, tra la gente, per la gente. Alla LID (Lega Italiana per il Divorzio), si affianca il Movimento di Liberazione della Donna, sotto la guida di Massimo Teodori (ma vanno ricordate anche Alma Sabatini, Wanda Roccella, Emilia Mancuso, Liliana Ingargiola e Alba Santoro) e (ovviamente e sempre) il Partito Radicale di Marco Pannella (anche grazie ai sui 25 giorni di sciopero della fame, strumento di lotta nonviolenta al fine di garantire il ripristino del diritto al democratico dibattito). Tagliati fuori da ogni trasmissione televisiva in anni in cui la tv dominava (e domina) incontrastata nelle case degli italiani, ma anche da qualsivoglia spazio mediatico cartaceo (tranne una pagina de “Il Mondo”), il fronte divorzista deve appellarsi al con-vincimento ad personam quasi, osteggiati finanche dal PCI di Berlinguer che nelle sue previsioni vedeva una certa sconfitta al momento del voto.
Si sbaglierà, lui e la DC. Peppone e Don Camillo. Il risultato fu la vittoria del NO (i referendum, come si sa, in Italia sono solo abrogativi, quindi la legge sul divorzio rimane) con uno scarso 60%, costruito in gran parte al Nord, mentre ampie fette del centro e del Sud rimangono fortemente legate a tradizioni e convincimenti clericali (sarà cosa simile anche su altre tematiche, tipo l’aborto).
Perché, vi starete chiedendo, questo lungo, ma doveroso recupero della memoria? Perché, in occasione del cinquantenario di quel referendum, stiamo assistendo ad una damnatio memoriae nei confronti del Partito Radicale e di chi quelle lotte le ha condotte in prima persona a vantaggio di chi invece le ha avversate e poi, ad esito scontato, cavalcate indebitamente. Queste parole per rendere giustizia a chi non c’è più, visto il tempo passato. E per sbugiardare chi consapevolmente e scientemente opera, da 50 anni, una capillare operazione di epurazione di tutto ciò che abbia a che fare col Partito Radicale che denuncia, spesso inascoltato, da decenni la vergogna del regime mediatico – partitocratico regnante in Italia. Esclusi dal Parlamento, esclusi, dalle coalizioni, esclusi da media, dalla stampa e finanche dagli eventi – ricordo: ne citiamo uno. Il 18 maggio alla Fondazione Massimo Fagioli di Roma si terrà una conferenza per rammentare quei giorni gloriosi…ebbene? E’ stato invitato qualcuno del Partito Radicale?! Andiamo avanti, cambiando completamente “genere”: Vanity Fair è uscito con un articolo ben scritto da Chiara Pizzimenti nella versione on line il 12 maggio, ma…c’è traccia, anche solo a mo’ di citazione, del Partito Radicale o di Marco Pannella?! Continuiamo: grazie ad Andrea De Angelis, nella puntata di “Stampa e regime” del 2 maggio (che potete riascoltare su Radio Radicale (grazie di esistere!)), scopriamo che la rivista Left ha pubblicato un inserto (n.65, dal titolo:”La battaglia sul divorzio – Dalla Costituente al referendum”) di ben 117 pagine in cui si è riusciti nell’incredibile impresa, in 117 pagine ripetiamolo, di citare una volta Marco Pannella, mai il Partito Radicale e 2 volte appena l’aggettivo radicale (che oggi tutti un po’ amano autoappuntarsi sulla mostrina…). Con una ciliegia che consiste nell’indicare il PCI come promotore dell’iniziativa divorzista referendaria!
Sono solo alcuni esempi a suffragio dell’ormai accertata tesi di spazzare via dalla storia di questo paese chi la storia di questo paese l’ha fatta, e fuori dalle stanze del potere, con raccolte firme, referendum, rischiando salute e vita. Da e con queste parole che chiediamo l’iscrizione al Partito Radicale, unico partito a concedere la possibilità (liberale e libertaria) di essere iscritti anche ad altri soggetti politici (la famosa “doppia tessera”). Iscrizione anche solo per sostenere una delle tante lotte di libertà e autodeterminazione (dal 1989 non solo nazionali) portate avanti nei decenni da un manipolo di pazzi visionari…iscrizione che serve anche solo a riconoscere il valore di quelle lotte (i cui esiti vittoriosi sono stati appannaggio di tutti i cittadini, non di una parte politica magari lobbystica) e di quella storia. Così facendo, di questo passo, la continua ed ossessiva damnatio memoriae perpetrata non solo ai danni del Partito Radicale, ma al paese Italia spazzerà via vite, successi e sconfitte di intere generazioni.
A futura memoria, se la memoria ha un futuro. (Leonardo Sciascia)
Blog di Claudio Marengo